Sant’Ilario da Matera

Ilario nasce a Matera nel 980 circa. L’origine lucana di Ilario è nota dal Chronicon Vulturnense, che dà notizia anche della sua elezione alla guida del monastero di S. Vincenzo al Volturno, di cui divenne abate nel 1011. Oltre che dal Chronicon si posseggono notizie su Ilario grazie a un’iscrizione in distici elegiaci recuperata negli anni ’60 del Novecento. Pantoni, lo studioso che ha descritto la lapide e ne ha edito il testo, ha ipotizzato che questo si riferisse all’abate Ilario sulla scorta della presenza del nome “Ylarius” nel primo verso. La lapide sarebbe tutto ciò che rimane del prezioso sarcofago in cui, come testimonia il Chronicon, furono trasferite anche le spoglie di altri due grandi abati: Autperto (778-781) e Giosuè (792-817). Il testo pubblicato con alcune integrazioni è il seguente:

“Nobilis ac tumba tumulatus Ylariu[s]
Participes operis nos docet e[t]
Auxilium fessis tribuit so[lamen]
Ut Xristi caperet premia cunc[ta]
Curans ut proprios aliena pe[r]
curabat gemini studio medica
Arte fugiens morbos muneribus”.

L’iscrizione però, come si vede nella fotografia della lapide contenuta nell’articolo, non è composta dei soli sette versi trascritti, ma di otto: dopo il quinto verso deve esserne inserito un sesto, anch’esso incompleto: “ditabat miseros termine“; il testo dunque, formato da quattro distici, è probabilmente completo e non è necessario supporre, come fa Pantoni, la mancanza di una porzione inferiore della lapide. Una conferma che si tratti proprio dello stesso Ilarius ricordato dal Chronicon potrebbe venire dalla integrazione nel primo verso con il termine abbas, uno spondeo che ne costituirebbe il piede finale (“nobilis ac tumba tumulatus Ylariu[s] abbas”). Lo stato dell’iscrizione impedisce di formulare altre ipotesi.

Ilario fu eletto, come già ricordato, abate nel 1011, nel periodo intercorso quindi tra la discesa nel Sud dell’Italia di Ottone III e quella di Enrico II. La storia del suo lungo governo si intreccia con quella, molto complessa, della zona in cui si trovavano i possedimenti del monastero di S. Vincenzo, insediamento religioso di fondazione carolingia divenuto oggetto di contesa da parte di Bizantini, principi longobardi e famiglie locali. Nel corso del X secolo dal Ducato di Napoli si erano distaccate Amalfi e Gaeta. Il Ducato di Benevento, che aveva annesso anche Capua, e il Ducato di Salerno avevano perso alcuni territori in favore dei Bizantini. Il predominio bizantino nel Mezzogiorno non fu mai accettato senza resistenza e alle rivolte dei principi si sovrapposero anche le campagne imperiali degli Ottoni, che avevano insieme lo scopo di assoggettare i principi e scacciare i Bizantini, nonché quello di sconfiggere definitivamente i Saraceni. Ottone I, eletto nel 962, aveva cercato di allontanare i Bizantini dal Mezzogiorno con l’aiuto del principe di Capua e Benevento, Pandolfo (I) Capodiferro, il quale aveva tratto dall’alleanza alcuni vantaggi presto perduti; la discesa di Ottone II, nel 981, e quella successiva di Ottone III non avevano avuto maggiore successo: l’autorità degli imperatori non riusciva a imporsi che per brevi periodi successivi al loro intervento.

Di Ilario il Chronicon dice che fu soprattutto uomo caritatevole, come confermerebbe anche il testo dell’elogio funebre. Sempre il Chronicon riporta i documenti riguardanti il suo abbaziato: la conferma dei beni posseduti dal monastero da parte del pontefice Sergio IV (1012) e dell’imperatore Enrico II (1014); un giudicato emesso da quest’ultimo a Benevento, dove Ilario lo aveva incontrato (1022), la conferma dei precedenti diplomi da parte di Corrado (1038), presso il quale l’abate, residente a Capua al momento dell’ingresso dell’imperatore, fu ricevuto “honorifice”. Tutti gli altri documenti riportati nel Chronicon – donazioni e giudicati in favore del monastero – testimoniano di una delle maggiori attività dell’abate, il quale “plures ecclesias, possessiones et predia sancto monasterio acquisivit, et que perdita fuerant recollegit“. Le attività di recupero dei beni dell’abbazia e di acquisizione di nuove terre e possessi rientrano nel quadro delle attività che gli abati di S. Vincenzo al Volturno svolsero a partire dal loro rientro dopo l’invasione saracena dell’881, che aveva tenuto lontano i monaci dalle loro terre per 33 anni, e che fu proseguita nel corso del X e dell’XI secolo. Il ripopolamento delle terre recuperate, anche attraverso contratti agricoli che prevedevano la costruzione e l’abitazione di castelli, fu opera di Ilario come dei suoi predecessori: “Hic venerabilis abbas conduxit homines et abitare fecit in Castro Licenoso, et in Colle Stephani et in Cerru“. L’invasione saracena e la distruzione del monastero di S. Vincenzo nell’881 segnarono un profondo mutamento nella sua storia economica poiché la perdita delle ricchezze impose ai monaci il ricorso a prestiti e a investimenti più produttivi, a una politica di immigrazione nelle terre abbandonate nonché alla colonizzazione di nuove terre. Si ebbe inoltre una svolta nei rapporti di natura politica, poiché l’indebolimento dell’autorità imperiale aveva lasciato il monastero in una posizione meno sicura nei confronti delle autorità locali che rafforzavano il proprio potere.

L’inizio di questo processo è precedente l’epoca del governo dell’abate Ilario, ma è ancora in tale contesto che quest’ultimo dovette agire. Un contesto che vede la ricostruzione del patrimonio vulturnense passare sia attraverso le donazioni, come testimonia il Chronicon, sia attraverso la costruzione e il popolamento di castra, che con il passare del tempo costituiranno i nuclei dello sviluppo delle famiglie locali a danno del monastero. Sempre il Chronicon, che però non riporta il documento relativo, dà la notizia dell’acquisizione a livello del castello di Alfedena da parte di alcuni membri di una famiglia che, dal nome del capostipite, fu denominata Anseri (“quidam milites de comitatu Balvensi, qui dicebantur filii cuiusdam Anserii”). Già nel 975 tre fratelli giunti da Valva, Rocco, Framesitu e Anseri, avevano ottenuto a livello metà del castello di Alfedena, non per coltivarne le terre dipendenti, ma soltanto per abitare l’insediamento e incrementarne la popolazione. Tale concessione aveva probabilmente uno scopo difensivo, trovandosi il castello di Alfedena sul confine settentrionale della signoria di S. Vincenzo e fu ulteriormente estesa sotto il governo di Ilario, perché comprendeva la terra e i castelli di Alfedena e di Montenero. L’iniziativa dell’abate non servì però a proteggere il monastero da un’altra potente famiglia locale: i discendenti del conte di Sangro Borrello, noti dalle fonti come “Burrelli filii”. Nel 1022 Enrico II scese nell’Italia meridionale, conquistando Capua e Benevento, dove Ilario, già al suo undecimo anno di governo, ebbe modo, come ricordato, di incontrarlo. Il principe di Capua, Pandolfo (IV), fu esiliato, mentre Guaimario (III), principe di Salerno, dovette dare un figlio in ostaggio. In tal modo l’imperatore riuscì, almeno per un breve periodo, a imporre il suo controllo sui principati longobardi: il conte di Teano, Pandolfo, fu scelto come nuovo principe di Capua, ma fu ben presto cacciato dal suo predecessore che, tornato in Italia dopo la morte di Enrico nel 1026, si era alleato con i Bizantini e con i Salernitani; si ritiene che a questa impresa abbiano partecipato anche alcuni membri della famiglia dei Borrelli, che all’epoca della discesa di Enrico II avevano offerto asilo all’abate di Montecassino Atenolfo; quest’ultimo, accusato di tradimento per aver aiutato il principe Pandolfo, suo fratello, era in seguito morto nel tentativo di raggiungere Bisanzio. Probabilmente nel periodo intercorso tra il ritorno di Pandolfo (1026) e la discesa di Corrado II, successore di Enrico (1038), il monastero di S. Vincenzo fu aggredito dai discendenti di Borrello che ne depredarono tutte le terre e pertinenze. La datazione di questo avvenimento risulta controversa: mentre infatti il Chronicon pone tra 1026 e 1038 l’invasione del monastero da parte dei Borrelli, Del Treppo lo colloca tra il 1030 e il 1038; si deve segnalare però che lo stesso editore del Chronicon, sulla scorta degli Annali critico-diplomatici del Regno di Napoli nella mezzana età di A. Di Meo, posticipa questi avvenimenti all’anno 1043, dopo che Pandolfo era tornato, come vedremo, una seconda volta sulla scena militare, e tale data è la stessa indicata da Enzensberger. In seguito alla discesa di Corrado II in Italia, Pandolfo (IV) dovette di nuovo fuggire da Capua. Il Principato fu offerto a Guaimario (IV) di Salerno, che riuscì in seguito a espandere il proprio dominio anche ad Amalfi e Sorrento. Coinvolto in alcune iniziative contro i Saraceni, Guaimario aveva preso al suo servizio dei cavalieri normanni; con il fallimento di queste campagne militari, la maggior parte dei mercenari a servizio di Guaimario avviò azioni di ostilità nei confronti dei Bizantini. Il ritorno del deposto Pandolfo che, sostenuto dai Bizantini, minacciava Guaimario dal Casertano, diede il via alla fase più acuta delle scorrerie della famiglia dei Borrelli.

(Monastero di San Vincenzo al Volturno)

Questi, alleati di Pandolfo ma intenzionati ad allargare gli spazi della loro autonomia politica e militare, aggredirono gli Anseri, dai quali Ilario aveva sperato di essere protetto, e depredarono le località affidate loro dal monastero: “Iam filii Borrelli super filios Anserii surrexerant, et uno occiso per fraudem, aliis fide captis, Alfedenam, Montem Nigrum, et alias terras huius monasterii abstulerunt“. L’aggressione dei Borrelli costrinse Ilario a chiedere aiuto a Guaimario (IV) che, per salvare i monaci, vi inviò milizie locali e normanne guidate dal conte d’Aversa, Rainulfo. Il Chronicon riferisce infine delle attività di Ilario volte a recuperare il patrimonio edilizio e artistico sia della sede di S. Vincenzo, la cui chiesa fece ridipingere e dotò di un “campanarium excelsum”, di libri e arredi sacri, sia di chiese dipendenti: S. Maria Maggiore, S. Pietro, S. Michele; e accenna all’occultamento delle reliquie del santo confessore Martino. L’abate Ilario morì l’11 novembre 1045 a Castel San Vincenzo, a lui succedette Liutfredo.

Si ringrazia Enzo Scasciamacchia per la preziosa collaborazione

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