Egidio Romualdo Duni, il famoso compositore materano

Nato a Matera, dove fu battezzato l’11 febbr. 1708, da Francesco, maestro di cappella della cattedrale cittadina, e Agata Vacca di Bitonto, ricevette la prima istruzione musicale dal padre. Secondo la tradizione, sarebbe entrato all’età di nove anni nel conservatorio di S. Maria di Loreto a Napoli e sarebbe passato in seguito a quello della Pietà dei Turchini, dove sarebbe stato allievo di F. Durante e avrebbe conseguito il titolo di maestro di cappella. K. M. Smith (New Grove, p. 716) ha dimostrato tuttavia che per l’incongruenza di fatti e date è impossibile che il Duni sia stato allievo del Durante, perlomeno all’interno del conservatorio.

La prima notizia certa sulla sua attività di compositore riguarda la rappresentazione dell’opera seria Nerone, avvenuta a Roma nel maggio 1735. Stando ai Mémoires del Grétry, l’opera, seconda della stagione dopo l’Olimpiade dei già celebre Pergolesi, ebbe un discreto successo. Giova tuttavia ricordare che il successo del Nerone non è confermato da altre fonti: secondo il Diario di Valesio, infatti, l’opera ebbe “poco plauso”. Nella successiva stagione di carnevale il Duni fece comunque rappresentare un’opera a Roma, Adriano in Siria (teatro Tordinona, dicembre 1735), e una a Milano, La tirannide debellata (eseguita al teatro Ducale nel 1736). Intorno a quest’epoca il Duni si sarebbe recato a Vienna in missione segreta, su incarico di un certo “cardinal C.”. Dell’episodio, citato da un’unica fonte non particolarmente attendibile, non si sono per ora trovate conferme. Il suo Demofoonte fu rappresentato a Londra nel maggio 1737 ed è molto probabile che il compositore fosse presente. Fu in seguito in Olanda, dove si immatricolò all’università di Leida il 22 ott. 1738. Nella stessa città (ma ovviamente in epoca precedente) era stato costretto a ricorrere alle cure del più celebre medico dell’epoca, H. B. Boerhaave, in quanto andava soggetto, come narra Goldoni nelle sue Memorie (p. 381), ai “vapori ipocondriaci”. Il “savio olandese” gli prescrisse semplicemente “di montare a cavallo, di divertirsi, di far la sua vita consueta e di guardarsi bene da qualsiasi specie di medicamento”; cura, questa, che piacque molto a Goldoni, a cui il Duni la descrisse quando si conobbero alla corte di Parma nel 1756. Il veneziano fu anzi cosi colpito dalla figura dell’illustre dottore da indurre il musicista a fargli “una descrizione particolareggiata dei suoi costumi e delle sue abitudini” e a parlargli “di sua figlia, madamigella Boerhaave, ch’era giovane, ricca, bella e ancora da marito”; e da questi racconti trasse l’ispirazione per la commedia Il medico olandese.

Nel gennaio 1739 il Duni era a Milano, dove una sua opera fu rappresentata al teatro Ducale, mentre altre furono messe in scena a Firenze, al teatro della Pergola, dal 1740 al 1744. L’episodio, riferito dalla maggior parte delle biografie, secondo il quale il Duni sarebbe stato assalito nei pressi di Milano da una banda di ladri, con il conseguente aggravarsi della sua instabilità psichica, non trova conferma nelle fonti. Anche un suo presunto ritorno a Matera e un viaggio a Venezia, che sarebbero entrambi di questo periodo, non sono seriamente documentati. La sua nomina, viceversa, a maestro di cappella nella basilica di S. Nicola a Bari è attestata dalla “conclusione capitolare” del 16 dic. 1743, in cui il Duni viene definito “professore di molta perizia e di ottima indole”. Forse proprio per dimostrare quella “molta perizia” scrisse un oratorio, il Giuseppe riconosciuto, su libretto di Metastasio. Degli altri due oratori che sarebbero stati da lui composti, Il sacrificio d’Isacco e Atalia (quest’ultimo tratto dalla tragedia di Racine) non rimane traccia.

Nel 1746 venne rappresentato a Napoli Catone in Utica, già eseguito a Firenze nel 1740. Ma fu probabilmente il brillante successo delle due opere Ipermestra e Ciro riconosciuto, entrambe rappresentate a Genova nel 1748, ad attirare l’attenzione di qualche autorevole personaggio della corte di Parma. Nel 1749 infatti il Duni entrò al servizio di Filippo di Borbone, duca di Parma e fratello del re di Napoli Carlo. Ebbe il titolo ufficiale di maestro di cappella di corte e fu maestro di musica della figlia del duca, Isabella, che andò poi sposa a Giuseppe d’Asburgo Lorena. A Parma egli compose ancora un’opera seria, Olimpiade (carnevale 1755). Ma l’atmosfera francesizzante e innovatrice di quella corte (il duca era il genero di Luigi XV), alla quale molto contribuiva la personalità di G.L. du Tillot (all’epoca “intendente generale della casa di Sua Altezza Reale” e non, come si è spesso erroneamente ripetuto, sovrintendente agli spettacoli; quest’ultima carica, come ci informa Goldoni, era invece affidata al “signor Jacobi”) e soprattutto l’incontro con Goldoni, che arrivò a sua volta a Parma nel 1756, determinarono a questo punto un mutamento di rotta e uno spiccato interesse per il teatro francese.

E’ dubbio che il Duni abbia musicato i due testi di Ch. S. Favart, La chercheuse d’esprit e Ninette à la cour: l’unica prova a favore è l’esistenza di un libretto dal titolo La semplice curiosa, versione italiana de La chercheuse d’esprit, rappresentato a Firenze nel 1751. Di altre esecuzioni pubbliche o private non rimane traccia. E’ certo invece che il Duni musicò, nel 1756, il primo dei tre libretti per opera buffa commissionati a Goldoni dalla corte di Parma. Si trattava de La buona figliola, che, come nota lo stesso Goldoni, “fu più fortunata nelle mani del Piccinni”; tuttavia “l’opera piacque molto, e avrebbe potuto piacere anche di più se l’esecuzione fosse stata migliore”. Questo successo evidentemente incoraggiò il Duni e lo indusse a mirare più in alto, scrivendo un’opera addirittura per Parigi. Jean Monnet, direttore dell’Opéra-Comique di Parigi, ci informa infatti nelle sue memorie di aver ricevuto nell’autunno del 1756 la richiesta, da parte della corte di Parma, di un libretto francese. Cosi nacque Le peintre amoureux de son modèle (1757), su testo di Louis Anseaume, rappresentato a Parigi con un brillante e duraturo successo. Il Duni fece precedere la partitura da un avertissement in cui prendeva posizione nell’annosa querelle sulla musica italiana confutando l’opinione espressa da Rousseau nella celebre Lettre sur la musique française del 1753 (che, cioè, la lingua francese fosse inadatta ad essere rivestita di note, mentre quella italiana era di gran lunga più armoniosa e più adatta al canto) e rendendo anzi omaggio alla lingua francese che gli aveva fornito “le melodie, i sentimenti, le immagini”. Questo culto del francese, vero o pretestuoso che fosse, rimase da allora un elemento centrale della sua arte, e fin dal 1761 il Grimm osservava che, sebbene il Duni fosse straniero, “non gli capitava mai di violare nella sua musica la prosodia francese”. La sua posizione filofrancese gli procurò l’inimicizia di Rousseau, mentre fu invece molto apprezzato da Diderot, di cui divenne amico e presso il quale introdusse Goldoni, dissipando l’incomprensione che si era creata fra i due. Di questa amicizia e dell’entusiasmo di Diderot nei suoi confronti rimane viva testimonianza in Le neveu de Rameau. Fu comunque subito evidente che Le peintre non era, come Monnet aveva annunciato, la rielaborazione di un intermezzo italiano, ma era stato certamente concepito in francese. Sebbene il linguaggio musicale sia nettamente italiano, la partitura contiene parecchi vaudevilles, com’era d’obbligo scrivendo per la Foire, e anzi termina con un vaudeville obbligato. Aveva insomma tutti gli ingredienti di un’opéra-comique modello, e infatti rimase in auge per molti anni.

Forte del successo ottenuto, il Duni abbandonò la corte di Parma (che gli concesse tuttavia un vitalizio) e si stabili a Parigi, dove sposò l’attrice francese Catherine Elisabeth Superville e ne ebbe nel 1759 il figlio Jean-Pierre, mediocre compositore. Negli anni successivi la sua fama crebbe considerevolmente grazie a una serie di opere di successo, la più importante fra le quali fu L’isle des foux (1760), tratta dall’Arcifanfano di Goldoni. In esse veniva perfezionata la fusione tra elementi italianeggianti (come le ariette) ed elementi francesi (come gli ensembles) e si evidenziavano le caratteristiche di uno stile descrittivo, pittoresco, più tardi addirittura larmoyant (L’école de la jeunesse, 1765). Nel 1761 il Duni lasciò la Foire e divenne direttore musicale della Comédie-Italienne (carica creata espressamente per lui da Favart), con uno stipendio di 1.000 franchi l’anno. Nonostante questa prestigiosa carica i suoi ultimi anni di attività (si ritirò nel 1770) non furono felici. Mentre alcune sue opere continuarono a riscuotere notevole successo (La fée Urgèle, 1765, su libretto di Favart; La clochette, 1766, su libretto di Anseaume), altre furono un totale fallimento (La plaideuse ou Le procès di Favart e La nouvelle Italie di Jean Galli di Bibbiena, entrambe del 1762); a ciò si aggiunsero tensioni e malumori con critici e librettisti. Già nell’agosto del 1761 sul Mercure de France comparve una sua risposta indignata alle critiche negative alla sua opera La bonne fille, del giugno 1762. Una lettera del gennaio 1762 – pubblicata da Tiersot – indirizzata dal Duni all’abate Voisenon rivela che i rapporti del musicista con Favart (che non gli aveva ancora dato il terzo atto de La plaideuse e che egli accusava in sostanza di averlo ingannato, non mantenendo fede agli impegni presi) erano assai tesi all’epoca. Nel 1766, allorché fu rappresentata l’opera La clochette, il Grimm, che pure la trovò “graziosa”, scrisse che era “di un gusto un po’ sorpassato e di uno stile un po’ debole” e aggiunse: “il nostro buon papà Duni non è più giovane; le idee cominciano a mancargli ed egli lavora ormai soltanto col mestiere”.

Sembra che fra il 1766 e il 1768 egli tornasse in Italia per un viaggio del quale però mancano notizie. Nel 1767 assistette a Marsiglia, probabilmente sulla via del ritorno, a un’esecuzione di La fée Urgèle. Dopo il suo ritorno a Parigi, seguito dalla rappresentazione delle due opere Les moissoneurs e Les sabots (rispettivamente gennaio e ottobre 1768), che ebbero peraltro un buon successo, Grimm tornò alla carica con parole ancor più velenose, scrivendo che il Duni “avrebbe fatto bene a rinunciare a comporre, dal momento che il suo viaggio in Italia non era servito a rinfrescargli le idee”. Gli consigliava in sostanza di ritirarsi e di lasciare il campo a Philidor e a Grétry, ciò che egli fece nel 1770, dopo la rappresentazione della sua ultima opera Thémire (26nov. 1770). Nel 1770 gli era stata concessa dalla Comédie-Italienne una pensione che egli comunque integrò continuando a dare lezioni fino alla morte, che lo colse cinque anni dopo. Mori a Parigi l’11 giugno 1775.

Si ringrazia Enzo Scasciamacchia per il prezioso contributo

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