La vigilia di Capodanno, anno nuovo vita vecchia

(le buonissime pettole)

La visciulij du Cap’donn“, cioè la vigilia di Capodanno, era caratterizzata da una forte attesa che cresceva man mano che passavano le ore e ci si avvicinava alla mezzanotte. Le aspettative dei materani per l’anno nuovo erano molte, così come le speranze che in un certo qual modo potessero migliorare le condizioni di vita di ciascuno dei componenti della famiglia. I contadini, in vista della festa, rientravano un po’ prima a casa, gli artigiani chiudevano prima la propria bottega, tutte le case si riempivano di profumi e si dava inizio ai preparativi della cena. La maggioranza delle famiglie materane trascorreva l’attesa giocando a carte in famiglia, tra risate e balli improvvisati a ritmo di tamburello che coinvolgevano giovani ed anziani. Le donne scioglievano dal collo il caratteristico fazzolettone e ballavano la tarantella. L’attesa veniva allietata dalle solite e immancabili pettole e da qualche bicchiere di buon vino. Non mancavano in ogni caso le famiglie che trascorrevano l’attesa dell’anno nuovo recitando il Santo Rosario.

Solo i più ricchi potevano permettersi feste da ballo organizzate; in queste circostanze si ballava a ritmo di strumenti musicali tipici della tradizione, come la fisarmonica (“La irjanett“), la chitarra (“La catorr“), il mandolino (“‘U manduljn“), la batteria (“‘U iazz bonn“) ed il tamburo (“‘U tambrrjdd“). Il cantante dettava i tempi, in materano si usava dire che “Comandava la quadriglia”, “Cmmannev la quadruglj“. Oltre agli invitati (parenti ed amici), per il quieto vivere si usava invitare anche i vicini di casa. Le sedie erano disposte lungo tutto il perimetro del locale, dove le donne aspettavano l’invito a ballare da parte dei ragazzi, il tutto sotto lo sguardo attento dei parenti delle ragazze.

Allo scoccare della mezzanotte dalle case fuoriuscivano urla di festa che si propagavano per tutto il vicinato. I più benestanti (pochissimi a dir la verità) ripetevano l’usanza di buttare le “robe vecchie” come i piatti filati (dopo che erano stati riparati diverse volte dal “Cuci-piatti“, “‘U conza piott“), bottiglie di vetro o grossi contenitori adibiti al trasporto di liquidi (“La r’zzaul“, “‘U r’zzjl“, “‘U chichm“, “La capès“, “‘U cuapasaun“), bicchieri e tutto ciò che era considerato ormai decrepito e difficilmente riparabile.

(il cuci piatti, ‘u conza piott, intento a riparare un piatto)

Il giorno dopo per le vie dei rioni Sassi i vari spazzini (“‘U spazzjn“) provvedevano a ripristinare la pulizia. Dopo il classico scambio di auguri, si tornava a casa cercando di evitare i cocci di vetro e ceramica che rischiavano di rovinare le scarpe; lungo il tragitto il pensiero andava al nuovo anno ed alle buone aspettative che esso portava con se. Tuttavia nei materani c’era la consapevolezza che l’anno nuovo sarebbe stato in realtà come il vecchio e le speranze sarebbero state disattese, si usava quindi dire ad alta voce “Ionn nuv, vjta vecchij: iev passèt n’ata scjrnèt” (anno nuovo, vita vecchia, è passata un’altra giornata).

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