La mietitura del grano nel passato

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contadini_ritornano_dai_campi_matera_2Prima che l’economia di Matera e del territorio circostante si basasse sul turismo ed il terziario in generale, le attività prevalenti che permettevano la sopravvivenza delle famiglie erano la pastorizia e l’agricoltura, quest’ultima soprattutto di cereali e grano (di cui il territorio conserva un eccellenza nel grano duro Senatore Cappelli). Il lavoro nei campi ogni anno coinvolgeva gran parte della cittadinanza; ciascuno dava il proprio contributo e tantissime figure lavorative, dal contadino al mugnaio, facevano della mietitura la loro forma di sostentamento. Il grano duro era, ed è attualmente, alla base dei principali prodotti tipici della gastronomia materana, tra cui spicca sicuramente il Pane di Matera IGP. Il grano veniva successivamente venduto dagli agricoltori ai mulini, di cui a Matera si possiede un’antichissima tradizione, come approfondito nella sezione “La storia dei mulini di Matera“.

La mietitura (‘U mat)

La mietitura era, ed è ancora oggi, una sorta di resoconto finale dell’annata; ovviamente fattori climatici come pioggia, sole, grandine e vento, influiscono non poco sulla quantità e sulla qualità del raccolto, tanto da compromettere spesso il lavoro di un anno intero. Vi consigliamo la lettura del paragrafo “I mestieri antichi: il mietitore, ‘U mt’taur“. Esistevano 3 tipologie di famiglie dedite al lavoro nei campi: quelle che possedevano alcuni appezzamenti di terreno, quelle che prendevano in fitto il terreno (“Tàrr ad affut“) per la semina ed il raccolto oppure quelle che lavoravano a contratto al 50% (“A mezza trij o alla port“, cioè più contadini insieme dividevano spese, lavoro e guadagni). Numerosi erano poi i contadini che lavoravano a giornate, sia materani che provenienti dai paesi limitrofi (“Frjstjr“, forestieri). I contratti che venivano stipulati per l’occasione avvenivano in piazza Vittorio Veneto, di fronte al Palazzo di Giustizia (attualmente palazzo dell’Annunziata), dove erano allocate le due pietre (“Du pjzzjn o du p’sarl“) che fungevano simbolicamente da testimoni dell’accordo. Altri contadini fiduciari venivano impiegati a dipendenza dai padroni (“A cmnonz du patrnèl“) e avevano sia il compito di controllare il normale svolgimento del lavoro sia il compito di aiutare gli altri braccianti nei processi di mietitura del grano.

La mietitura durava all’incirca un mesetto, dalla seconda metà di giugno alla prima metà di luglio, periodo variabile a seconda della maturazione del grano e dell’esposizione al sole del terreno. Intere famiglie partivano armate di arnesi come la falce (“La folcj“), prontamente fatta affilare dall’arrotino (“Amjla furcj“), pezzi di canne (“‘U conn“), che sarebbero serviti per proteggere le dita, il cucumo (“‘U chicm“), per portare l’acqua in campagna e strigliare il mulo (“Strigghiè ‘u mjl, o ‘u cidd“). Nel caso in cui si possedesse un traino (“‘U traìn“), si verificava lo stato del mezzo prima di iniziare. Nelle primissime ore della notte le strade di campagna si popolavano di tanti traini con a bordo donne e bambini, guidati dalla luce fioca del lucernino a petrolio (“La lantarn a ptrelij“), verso una destinazione che avrebbero raggiunto alle prime luci dell’alba. Sotto un sole non ancora caldo, i contadini si distribuivano sul lato del campo più lungo, se questo era pianeggiante e rettangolare, per raggiungere l’altro capo in un tempo inferiore. Se il terreno era posto in salita si era soliti operare senza non poche difficoltà dal basso verso l’alto. Ciascun bracciante prendeva la sua direzione (“‘U sic’l“) e continuava senza esitare verso la fine del terreno. Tutti i lavoratori, per proteggersi dal sole che nelle ore successive sarebbe diventato più forte, si vestivano adeguatamente: gli uomini indossavano un cappello (“Cuappjd“) ed un fazzoletto rosso al collo (“Faccjlett“, che al momento giusto serviva per asciugare il sudore), le donne usavano porre in testa un fazzoletto chiaro. Per evitare infortuni dovuti all’uso della falce, le dita venivano coperte da pezzi di canne (“‘U conn pu dascjtr“, in italiano le canne delle dita); per prevenire, invece, le lacerazioni derivanti dagli steli secchi e duri veniva legato al braccio un pezzo di pelle (“La pezz pu vrozz“). Contro il formarsi di lacerazioni alle gambe dovute alle ristoppie (“Rstauccij o’ iom“), ai piedi si indossavano scarponi (“Scarpjn“) per gli uomini e calze grosse (“Cazijt rius“) per le donne. I risultati delle lacerazioni erano ben visibili sulle gambe dei bambini (“Criataur“) quando indossavano pantaloncini (“Cuazaun chirt“); il compito di questi ultimi era infatti quello di correre dai mietitori portando loro dell’acqua all’interno dei cucumi (“‘U chicm“), con l’accortezza, in seguito, di riposizionarli al fresco all’ombra di un albero, oppure nei covoni o seminterrati. A metà mattinata la comitiva di mietitori si fermava per fare colazione (“Caziàn“) con pane (“Pèn“) portato da casa e avvolto in una tovaglietta di cotone tessuta a mano (“Mappjn d c’ttaun tjssjt“). Come companatico poteva esserci generalmente pomodori (“P’mmdaur“), formaggio (“Frmoggij“) e cipolla (“Cjpaud“), il tutto accompagnato con del buon vino rosso (“Mjr riss“). Il pranzo a mezzogiorno (“Menzadì“) comprendeva gli stessi alimenti della colazione. Spesso per chi lavorava alle dipendenze dei padroni il pranzo era concordato a priori.
Il taglio delle spighe avveniva brandendo con la mano sinistra, per i destrorsi, il ciuffo e con la destra si impugnava la falce, tagliando a circa 20-30 cm dal terreno. I fasci tagliati venivano così deposti per terra per permettere ad un’altra persona di raccoglierli, legarli con un altro piccolo fascio di spighe verdi intrecciate ed infine lasciarli a terra con le spighe disposte verso l’alto a formare le regne (“‘U riagn“). Una volta mietuto un bel pezzo di campo, alcuni contadini raccoglievano le regne per formare i covoni (“Asedr“). I covoni erano di forma circolare con le spighe rivolte all’esterno per permettere un’ulteriore asciugatura. Quando si avvicinava la pioggia le regne venivano disposte sui covoni con le spighe rivolte all’interno, per poi essere coperti da un telone. Le regne venivano disposte sui covoni con l’utilizzo di forche, fino a formare quasi un cono, tale da resistere anche in caso di forte vento.

La trebbiatura (Traghiè)

La trebbiatura avveniva chiaramente dopo aver completato la mietitura di tutto il campo, in un posto scelto a priori dove fosse presente una sorgente d’acqua come un pozzo (“Pizz“) o nei pressi di una masseria (“Massarij“), comunque in una posizione ventilata. La trebbiatura consisteva nel trasportare i covoni di grano (“Aseddr d irièn“) nella posizione stabilita mediante l’uso dei traini; il carico e lo scarico avveniva tramite le forche (“‘U ferch“).

La pisatura (La pjsatjr)

Scelta una postazione spaziosa, venivano stesi per terra dei grandi teli (“‘U tljn“) su cui venivano posati i fasci di grano delle regne, slacciati fino a formare un grande cerchio. Prima di iniziare questa operazione occorreva preparare il mulo, non prima di averlo dissetato con un po’ d’acqua e sfamato con del fieno posto in un fagotto legatogli in testa. Il mulo veniva dotato di paraocchi per ridurre il suo campo visivo, l’animale veniva successivamente guidato dal contadino secondo una traiettoria circolare tramite una fune (“‘U cuannapjd“) legata alla testa. La pisatura aveva inizio quando il contadino, posto al centro del cerchio, intonando canti tradizionali in dialetto materano, con andatura costante e aiutato dal rumore del frustino (“‘U scrisciod“), faceva muovere il mulo in cerchio. L’animale schiacciava così le spighe di grano, liberando i chicchi dal loro involucro.

La ventilatura (“La vntjlatjr”)

Questa fase seguiva la pisatura (“La pjsatjr“) e consisteva nel separare i chicchi di grano dalla polvere. Una volta accumulata una certa quantità di gregne frantumate (“Riagn cazzèt“), le donne impugnavano verso l’alto dei setacci (“Cjrnucchij” o “farnèl“) per porre al loro interno il risultato della pisatura. In questo modo il pulviscolo di paglia, più leggero, veniva allontanato dal vento, mentre i chicchi di grano frantumati, decisamente più pesanti, ricadevano verticalmente sul telo. La mancanza di vento obbligava le donne a ripetere questa operazione più e più volte. Terminata la ventilazione, il grano veniva raccolto in sacchi di liuta, il cui peso oscillava tra i 50 Kg e il quintale. La paglia, precedentemente separata, veniva raccolta in altri sacchi, conservata in stalle o casolari di campagna e usata come nutrimento per gli animali durante il periodo invernale.
Il grano nei sacchi veniva trasportato con i traini a casa del contadino per essere riposti in grandi casse (“‘U cuasciaun“), oppure portato a deposito nei mulini (“‘O mljn“). I proprietari dei mulini prima valutavano la qualità della merce, più alta se “grano duro” di tipo Senatore Cappelli, caratteristico delle campagne materane, e poi stabilivano il prezzo di mercato, chiaramente sempre al di sotto delle aspettative degli agricoltori. Consigliamo di approfondire la storia dei mulini a Matera nell’apposita sezione.

La spigolatura (Spghlè)

Dopo il raccolto, coloro che non possedevano terreni o che non avevano un lavoro si recavano nei campi a spigolare, cioè a raccogliere le spighe di grano che erano rimaste lungo tutto il confine (“‘U chmbjn“). Questa operazione era effettuata spesso dalle donne che, munite degli stessi attrezzi del mietitore, seguivano le stesse procedure usate durante la mietitura. Come è facile immaginare, la quantità di grano che si riusciva a raccogliere era molto ridotta, per questo motivo spesso le operazioni successive, come ad esempio la ventilatura, venivano svolte a casa o nei vicinati all’interno dei vecchi rioni Sassi.

Le ristoppie (U rjsticcj)

Per completare la mietitura i contadini erano soliti bruciare le ristoppie (“La rstauccij“), in genere subito dopo la festa di Santa Maria (“La Santa Marij’”), cioè il ferragosto (“‘U ferraijst“), dopo che il caldo si era attenuato rispetto al resto dell’estate. Essendo potenzialmente un’operazione pericolosa, i contadini, muniti di forca e rastrello (“Ferch j rastrjdd“), appiccavano il fuoco e lo sorvegliavano con molta attenzione. Si cominciava con il bruciare le ristoppie lungo tutto il confine. In caso di emergenza, per spegnere il fuoco venivano usati dei sacchi di tela. Questa fase veniva svolta il più delle volte di sera da più persone, al fine di affrontare eventuali imprevisti, favoriti, ad esempio, dal vento. Visti i costanti incendi che questa fase della mietitura generava fu successivamente vietato di appiccare incendi in campagna; secondo le nuove normative le ristoppie possono essere solamente sotterrate.

La mietitrebbia (La mjt trabbij)

La mietitura in tempi moderni è stata rivoluzionata con l’uso dei moderni macchinari, a partire dalla mietitrebbia. Fino agli anni ’50 e ’60 la mietitura del grano avveniva seguendo il metodo tradizionale, come descritto in precedenza, fin quando negli anni successivi la mano d’opera dell’uomo è stata sostituita dall’uso di macchine. Ai giorni nostri il grano è già ottenuto sul campo mietuto e la paglia viene compressa rapidamente in balle di notevoli dimensioni. Già negli anni ’50 i contadini si rivolgevano a chi possedeva la macchina, azionata da un trattore mediante un sistema a cinghie, dove inserire con la forca le gregne dai covoni. Di solito la procedura prevedeva l’impiego di più persone. Oltre a chi inseriva il grano nel macchinario, c’era chi lo incanalava nel carrello, chi lo tagliava per far procedere la macchina senza intoppi e chi si posizionava all’uscita dei bocchettoni, dove erano collegati i sacchi.

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